Negli ultimi mesi ho visto parecchi film ma solo tre davvero osceni: Bright, The Open House e The Cloverfield Paradox. Mentre osservavo col sopracciglio inarcato i titoli di coda di quest’ultimo, distribuito in pompa magna subito dopo il Superbowl, mi è sovvenuto che tutti e tre sono made in Netflix, che da qualche anno, oltre a produrre in proprio serie tv, si è messa a realizzare, produrre o co-produrre anche lungometraggi.

Del primo si è parlato parecchio, anche sulle nostre pagine, soprattutto perchè a fronte di uno sforzo produttivo enorme, il risultato finale è stato, almeno sul fronte autoriale, assolutamente irrilevante. Il secondo, The Open House, è uno degli horror più stupidi dell’anno scorso (e vista la risibile qualità media dei film di quel particolare genere cinematografico ce ne vuole per conquistare un simile primato), mentre l’ultimo segna, nell’opinione di chi scrive (a breve la recensione completa), una pagina nerissima della storia del cinema di fantascienza recente, essendo un mix poco riuscito e totalmente derivativo di altre pellicole e serie quali Spazio 1999, Sunshine, Alien, Godzilla e pure de La Famiglia Addams, visto che un’ atroce trovata della sceneggiatura sembra ispirata alle avventure di Morticia, Gomez e Mercoledì. Insomma, è il classico film in cui si ride spesso, ma per i motivi sbagliati (finale a parte, lì parte proprio lo sghignazzo feroce).

Facendo mente locale e un po’ di ricerche però, mi sono reso conto che non è la prima volta che Netflix “cinema” fa un buco nell’acqua, anzi, nella sua breve storia, iniziata il 16 ottobre 2015 con il valido Beasts of No Nation, si possono contare più insuccessi o successi parziali che film di grande livello (l’esatto opposto, giusto dare un parametro di riferimento, di A24, probabilmente la migliore casa produttrice degli ultimi trent’anni).

Tra le delusioni cocenti ci metto sicuramente Death Note, che, vuoi per il formato scelto (una storia del genere sarebbe stata perfetta come serie tv, ridurla a film è pura follia), vuoi per gli scarsi valori produttivi, è risultato essere lontano anni luce dall’anime e dal manga originale, The Ridiculous 6, atroce commedia di Adam Sandler (strapagato per un prodotto dozzinale, in linea con i suoi pessimi lavori dell’ultimo decennio), l’opacissimo e non necessario sequel Crouching Tiger, Hidden Dragon: Sword of Destiny e What Happened to Monday, sulla carta una bella idea ma realizzata con troppa approssimazione (in Italia è stato distribuito col titolo di Seven Sisters).

Altri film erano piuttosto promettenti, ma all’atto pratico si sono rivelati al di sotto delle aspettative (forse eccessive) che si erano create: in questo gruppo si potrebbero inserire Okja, War Machine, The Babysitter, XOXO, The Meyerowitz Stories (New and Selected), Mudbound, 1922 e Gerald’s Game. Titoli discreti/buoni, ma nulla di più. Film memorabili o che abbiano visibilmente una marcia in più rispetto alla media, per ora, non sono pervenuti, a parte forse il gustoso I Don’t Feel at Home in This World Anymore.

A Netflix del parere della critica importa poco o nulla e le polemiche seguite all’uscita di Bright (che avrà un sequel) ne sono la conferma più evidente. Per ora, a dirla tutta, sembra che almeno in ambito filmico, la compagnia non abbia ancora trovato il passo giusto e che punti più sulla quantità che sulla qualità, indorando la pillola con un marketing strepitoso e la capacità di rendere “evento” anche una puerile boiata come The Cloverfield Paradox, che scompare di fronte ai due capitoli precedenti (specie il secondo che qui avevamo amato alla follia).

La risposta alla domanda del titolo quindi potrebbe essere “più spesso di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi qualche anno fa”. A questo punto non resta che vedere se il comparto filmico migliorerà e raggiungerà la buona qualità delle produzioni televisive o se, alla frenetica ricerca di contenuti per riempire i palinsesti e per soddisfare i bulimici appassionati di binge watching, non accadrà l’esatto contrario…



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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